“Best of” interviste


Interviste

Anno 2011, intervista al Premio Nobel per la pace Shirin Ebadi

Ha il viso disteso, sorride spesso: lineamenti che paiono subito persiani purosangue. Shirin Ebadi (Premio Nobel per la Pace 2003, 64 anni) è ospite dell’Asiatica Film Festival di Roma.

Iraniana e musulmana, nel 2009 ha subito il sequestro del Premio Nobel, oltre alla confisca del suo appartamento e della sua pensione: quella che riceveva per il lavoro svolto presso il Ministero della Giustizia, costellato di battaglie per i diritti civili del suo Paese.
È cronaca di questi giorni: sei anni di reclusione per il regista iraniano più conosciuto al mondo. Censure che suscitano clamore perché riguardano la categoria degli artisti, cioè la minoranza più esposta.
«Nel nostro Paese, gli spazi stanno diventando sempre più chiusi. Ho incontrato proprio in questo festival un cineasta iraniano, Mohammad Rasoulof. È stato condannato a un anno di carcere anche lui, e in appello: il tempo di tornare in Iran e sarà arrestato.
Gli ho chiesto: “Tornerai a casa, in Iran?” e mi ha risposto, nonostante tutto, “Assolutamente sì!”. Per non parlare dei tre documentaristi per la BBC che si erano occupati di Panahi…»
L’Iran di Ahmadinejiad. Quali sono i sentimenti dei suoi cittadini, oggi?
«Ahmadinejad non ha mai – e dico mai! – goduto di un ampio consenso nel nostro Paese. Ha vinto due volte le elezioni con la frode, falsificando i risultati. Avete dimenticato le manifestazioni di milioni di persone nel giugno 2009?»
Due anni fa, a proposito dell’Amministrazione Obama, Lei parlò di un possibile “nuovo corso” rispetto alle scelte che aveva fatto Bush nei rapporti col suo Paese. Cosa pensa oggi?
«Io speravo tanto che i problemi tra l’Iran e l’America potessero risolversi col dialogo. Condizione che non è stata assolutamente realizzata, per adesso. Continuare su una linea simile non è a favore dell’Iran: poco ma sicuro».
I premi Nobel per la Pace, quest’anno, sono stati assegnati a tre donne. Le donne hanno una marcia in più nella lotta per i diritti civili?
«Certo. E sono così felice della loro elezione, faccio loro i miei auguri più grandi. È un messaggio fondamentale per tutto il mondo. Nessuna società può realizzarsi sotto il profilo democratico senza l’affermazione dei diritti delle donne».
Un regime tende ad accanirsi e ad arginare quello che teme di più. Perché il fondamentalismo islamico si ostina a limitare così tanto la libertà delle donne?
«Lo ha osservato lei stessa. Gli islamici hanno paura del mondo femminile. Le donne che svolgono attività per i diritti umani sono trattate come sovversive, e sono sbattute in carcere perché vogliono una cosa: la democrazia. Penso di essermi spiegata abbastanza».

VIDEO-INTERVISTA A GIUSEPPE TORTNATORE

2012, Intervista (SCOOP) a Leo Gullotta: la nuova voce italiana di Woody Allen.

Quando, nel 2009, Oreste Lionello si spense, il lutto arrivò oltreoceano. «Una cosa è certa – disse Woody Allen -: grossa parte della mia popolarità in Italia è legata a lui.

Mi ha reso un attore migliore e una persona più divertente. Che fortuna essere doppiato da un uomo così». Non mancarono i dubbi, né per Allen né per il suo pubblico nel nostro Paese, su chi potesse accogliere uno scettro tanto esclusivo: l’eredità quasi mistica di un feeling tra lui, regista e attore di marca inconfondibile, e l’interprete che aveva raccontato in italiano tutto il suo cinema. Blindata nel riserbo più stretto, la decisione del conclave. In lizza, si diceva, c’era una decina di doppiatori. E i giochi sembravano ancora aperti. Sbagliato. La nuova voce di Woody Allen ha tanto di nome e cognome, un curriculum noto ai più, e soprattutto una militanza ventennale nella stessa compagnia di varietà di Lionello. Così Leo Gullotta (66 anni) ci racconta di aver accettato una sfida che sembrava impossibile.

Il nuovo doppiatore di Woody Allen. Com’è avvenuto questo passaggio di testimone?

«Allen aveva deciso di non fare più l’attore ma, in Bop Decameron (suo film girato in Italia la scorsa estate) è tornato a recitare: dunque si è posto il problema di doppiarlo. Sono stato seguito dalla grande direttrice Maura Vespini, ma in cabina di regia c’era un rappresentante americano del film: gli americani non si perdono un solo respiro, in questi casi».

Si sta confrontando quindi con due miti: Woody Allen, e la sua voce italiana storica. Com’è stato subentrare a Oreste Lionello?

«Col grande e meraviglioso Oreste Lionello ho trascorso 24 anni della mia vita. C’è stato profondo rispetto nei suoi confronti. Un costante ricordo. Mi sono accostato a questo lavoro con dedizione e professionalità: ho seguito per filo e per segno sullo schermo ciò che Allen ha cercato di dare. Ma è stato anche un modo per stare con Oreste in maniera “leggera”: giocando e ripensando alla sua altissima qualità professionale».

Lei si presta al doppiaggio dopo anni a teatro e sullo schermo. La si ricorda spesso per parodie e caratteri molto popolari, ma ha sempre affrontato anche ruoli drammatici…

«La interrompo proprio per dirle che c’è una miopia tutta italiana nel ricordare un attore sempre nello stesso ruolo. La mia professione ha compiuto cinquant’anni: mi hanno festeggiato – bontà loro – il Presidente della Repubblica, il sindacato dei critici cinematografici. La frequentazione di molti linguaggi mi ha permesso di entrare nelle case degli italiani, ma un attore è un interprete: altro è il personaggio».

C’è qualcosa in cui, da interprete, pensa di somigliare a Woody Allen?

«Direi proprio di no. Lui è un magnifico americano che ama l’Europa. Io sono un italiano, e anche molto diverso…».

È anche un suo fan?

«Come non esserlo? È un meraviglioso creativo e rappresenta un preciso passaggio registico. Amo il suo stile, il modo in cui ha allenato a usare la testa».

Nel frattempo, però, lei è in tournée con Shakespeare.

«Collaboro da sette anni col Teatro Eliseo di Roma. Sono al terzo spettacolo: Le allegre comari di Windsor. Centocinquanta repliche, ottantamila persone che ci hanno visto: il pubblico vuole riscoprire la qualità. Il piacere di riflettere e di essere coinvolto. E vuol essere trattato con onestà: in questo, ho dato sempre il massimo».

Ci regala un ricordo di Oreste Lionello? Che persona era?

«Era il professionista che tutti conoscono, ma anche un’anima alta e un uomo di grande cultura. Un semplice e silenzioso “clown”: con tutta la poesia che questa figura suggerisce e mostra».

2013, intervista ad Adriano Giannini

La Foresta di ghiaccio è l’ultimo titolo a cui ha lavorato. Un thriller girato quest’anno, che sfoggia, tra gli altri, il volto di Ksenia Rappoport. Diretto da Claudio Noce, Adriano Giannini sarà un casanova degli anni Sessanta; per l’occasione, ha vestito i colori sgargianti e i mocassini con le mappe che, mezzo secolo fa, facevano tanto «macho». Questione di mode. A vederlo vestito così, se possibile, il padre Giancarlo pare ancora più vicino. Ha i suoi occhi chiari immersi nel viso mediterraneo, ma quelli di Adriano sono azzurri, di una luce malinconica che non sfuma neanche nei sorrisi pieni di fossette. Alle spalle, tutti i mestieri del cinema. A cominciare dall’operatore sul set quando, appena maggiorenne, si lasciò tentare da un film di sua madre (Livia Giampalmo, attrice e regista): Evelina e i suoi figli. Con Madonna, condivide addirittura un «Razzie Award»: furono, nel 2002, la «peggior coppia sullo schermo», quando avevano tentato di bissare il capolavoro di Lina Wertmüller Travolti da un insolito destino nell’azzurro mare d’agosto. Gli «originali» del remake, guarda caso, erano stati Mariangela Melato e Giancarlo Giannini.
Invece è un attore di talento, Adriano. Sul piccolo schermo, freschissimo di una delle prove più delicate della fiction italiana: la serie In Treatment, diretta da Saverio Costanzo per Sky Cinema e, presto, La7. È qui che si è lasciato «strizzare il cervello» dallo psicoterapeuta (per finta) Sergio Castellitto. Una serie israeliana già nelle mani di Rodrigo García negli Stati Uniti che aveva consacrato per tre stagioni il volto di Gabriel Byrne e lanciato quello di Mia Wasikowska. Un cast stellare anche in Italia. Oltre a Castellitto, Kasia Smutniak, Barbora Bobulova, Valeria Golino. E, appunto, Adriano Giannini.
Il format israeliano è stato ricalcato quasi intonso in molti Paesi del mondo e, ovunque, è stato un successo. In Treatment ha puntato dritta al cuore la qualità anche in Italia. E per l’occasione Adriano Giannini è stato Pietro, un marito geloso poco portato per gli esami di coscienza, poco provvisto di strumenti, ma di una sensibilità disarmante. Di nuovo la fragile maschera del «macho», infranta dai colpi esperti della psicanalisi.

Il ruolo di Pietro le somiglia?

«Non credo. Ma in realtà non faccio mai molto caso a quanto un personaggio condivida con me. Preferisco prendere un po’ di distanza e interpretarlo. Mi piace essere oggettivo, osservare senza similitudini. Non ho voluto guardare l’edizione americana di In Treatment proprio per non farmi influenzare. Ho solo pensato che, di sicuro, in America sono stati sfruttati attori bravissimi: troppo bravi per non tendere poi, anche involontariamente, a imitarli»

Cos’ha pensato quando le è stata proposta questa parte?

«Immediatamente, alle moltissime sessioni di provini. Saverio voleva scelte oculate. Io ricordavo qualcosa di quella serie, ricordavo Gabriel Byrne… Mi sono trovato davanti quindici pagine di provino scritte benissimo, cosa che purtroppo non capita spesso. (Un limite italiano che però permette alla qualità di saltare subito all’occhio). Ho pensato al cast importante, pieno di talenti. Ognuno ha girato in due settimane e i tempi sono stati serratissimi: sei-otto ore di riprese al giorno fatte da molte angolazioni: cinque ore consecutive di recitazione, che è un ritmo davvero intenso. Richiede molto studio».

Ha mai fatto psicoterapia?

«Molti anni fa, per un breve periodo. Sono “favorevole”».

Ne parla quasi come di una droga leggera…

(Ride) «Trovo sia un percorso di conoscenza di se stessi, anche piuttosto duro. L’approfondimento non fa mai male, ma bisogna finire nelle mani giuste. La qualità dell’analista è fondamentale»

A dare uno sguardo al suo curriculum, sembra l’uomo dei remake. Accanto a Madonna, calcò le orme di suo padre. Le trovò più scomode o motivanti?

«Fu il  secondo film della mia vita. Una situazione stranissima. Un remake con Madonna è molto strano, con suo marito dietro la cinepresa è ancora più strano (si tratta del regista Guy Ritchie, ndr). In più quel ruolo l’ha fatto tuo padre! È tutto paradossale, ma è stato uno dei film più “semplici” a cui ho partecipato… Non pensai troppo alle orme di mio padre. Credo che mi sarei spaventato, forse neppure lo avrei fatto… ».

Barbora Bobulova, sua moglie per la regia di Saverio Costanzo. Nella fiction c’è un rapporto appassionato, proprio come nel film della Wertmüller: si combattono (anche fisicamente) ma anche un forte sentimento. Siete stati affiatati sul set?

«Barbora mena, e mena anche forte! (Ride, ndr). Ci siamo trovati bene: lei è una grande professionista. In un lavoro del genere c’è anche il tempo per scherzare, noi ci siamo divertiti tanto, anche. Ma lei è una macchina da guerra. Ed è bravissima».

Pensa, in tutta sincerità, di essere più a suo agio nella fiction o al cinema?

«Il cinema è sempre più divertente. Consente un approfondimento dei contenuti che in tv, spesso, non c’è. E un linguaggio che “rischia di più”. Diverso sarebbe se facessimo la stessa televisione che si fa negli Stati Uniti».

Cos’ha di speciale e qual è la maggior “lacuna” del cinema italiano?

«Di speciale francamente non so cos’abbia. Forse qualche regista. Ma non oltre quei tre-quattro talenti… Io  non vedo niente di particolare, anche perché gli anni d’oro del cinema, in Italia e nel mondo, sono passati da una  quarantina d’anni Il livello culturale si è abbassato, la creatività si è ridotta. Speriamo non sia il declino del cinema… Penso dipenda anche dal fatto che le piattaforme per raccontare storie sono sempre di più».

Come suo padre, lei è anche un doppiatore. Cos’è il doppiaggio, dal suo punto di vista di volto noto e attore “migrante”?

«Anzitutto un gran divertimento. Io ho avuto la fortuna di prestare la voce a  grandissimi attori: è talmente bello “sparire” e imparare da loro. Restituirli. È un lavoro complesso che mi riesce spontaneo e semplice. Una grande palestra che costringe a capire ed esprimere subito».

Qual è stata la più grande lezione di suo padre?

«Indubbiamente la simpatia, la semplicità, l’ironia. Valori nella vita che poi pesano anche nel lavoro. Essere seri, ma mai seriosi».

Ha avuto altri modelli, nel mestiere di attore?

«Se parliamo di lezioni dirette, di sicuro un mio maestro di teatro di tanto tempo fa…. E poi, da attore-spettatore, i grandi attori di Hollywood. Marlon Brando, che ha rivoluzionato la recitazione: maestro dell’erotismo, dell’ambiguità… »

Il personaggio che più si è “portato a casa”, che più ha lasciato il segno?

«Quello di In Treatment più di tutti. Da doppiatore, però, ricordo quando prestai la voce a Eath Ledger ne Il Cavaliere Oscuro. Lo avevo conosciuto personalmente, e lui era appena morto. Mi portavo dietro le sue note aggressive, anche mentre giravo su un set in Sicilia».

Qual è la cosa più importante della sua vita, in questo momento?

«In questo momento? (Non ci pensa un attimo, ndr). Probabilmente, se prendere un altro cane… Ho due labrador. Stavolta ne voglio uno di taglia piccola. E rigorosamente da caccia…»

2012, intervista a Giancarlo Giannini

«Abbiamo costruito computer, robot, armate automatizzate. Ma cosa succede, quando il nemico ruba le chiavi? Quando gli aggeggi che abbiamo costruito per difenderci sono rivolti contro di noi? È allora che si sono resi conto… che avranno sempre bisogno di uomini come noi».
Uomini – non c’è partita per nessuno – come Giancarlo Giannini. Tale e quale a questo copione, recitato dalla sua voce, è la sua partecipazione al doppiaggio di Call of Duty – Black Ops II, la saga di videogame giunta all’ottavo capitolo. Altissima tecnologia, di quella che ti risucchia nel cuore della realtà virtuale, vellutata e cristallina come la terza dimensione, eppure coi suoni tutti umani dell’attore italiano più famoso al mondo. La voce del perfido Raul Menéndez. Il videogioco bellico che fa combattere (sullo schermo) 40 milioni di utenti online ogni mese, e due milioni in Italia. Battaglie efferate durante la Seconda Guerra Mondiale, il periodo della Guerra Fredda, e adesso, finalmente, la «Guerra Futura»: un capitolo di fantapolitica in cui il personaggio di Raul Menéndez detiene (materialmente) le chiavi della buona e della cattiva sorte dell’umanità. Le ha rubate all’infrastruttura militare americana, ed è deciso a distruggere il mondo intero. È anziano, emaciato e ha occhi di ghiaccio: ma quando Giancarlo Giannini lo «riempiva» con la sua voce, non poteva guardarlo. Si limitava a seguire grafici che, con la sua vocalità, ondeggiavano colorati. Un risultato che dà i brividi.
Assomiglia a qualcuno incontrato nel suo passato di centosettanta film, questo «ectoplasma da guerra» di Call of Duty? «Ho doppiato su un diagramma: un asse di volume e tempo. No, non assomiglia a nulla di quello che ho fatto prima. Ma io non sono abituato a guardarmi indietro. E quando arriva un lavoro nuovo, che divertimento c’è se dai per scontato di saperlo fare?»

Call of Duty è un videogame fatto con la stoffa del cinema. E Giancarlo Giannini, l’attore passato per le mani di Visconti, Monicelli, Ridley Scott e Francis Ford Coppola (con una nomination all’Oscar nel 1977, nel pieno della collaborazione con Lina Wertmüller), è anche un esperto doppiatore. Uno che il cinema lo vive in lungo e in largo, appare e scompare, ma lascia sempre il segno. Guai a dire, però, che i videogiochi e i film sono cose «reali», deputate a raccontare la verità. «La differenza tra un videogioco e un film – secondo Giannini – è che col primo puoi interagire direttamente. Ma in realtà, anche con un film qualsiasi puoi interagire. Con la fantasia, guardandolo più volte, immaginando finali diversi. A proposito dell’interazione – spiega – quarant’anni fa in America conobbi un italiano che si occupava di gravità e magnetismo. Mi portò in un salone immenso e mi disse: “Tu che sei un elettronico (Giancarlo Giannini ha un diploma di perito elettronico, ndr) e anche un attore, potresti partecipare al nostro progetto. Vogliamo creare la battaglia navale sul grande schermo, conciliare scienza e arte.” Qualche anno più tardi, naturalmente, lo hanno fatto davvero».
Il momento più felice della sua carriera è stato negli anni Settanta. Com’era il cinema internazionale allora? E cos’è invece il cinema di oggi? «Era diverso il modo in cui producevamo. Eravamo più curiosi. Più consapevoli di raccontare “la grande favola”. E non c’era la frenesia, venuta fuori dalla televisione, di fare tutto rapidamente con la preoccupazione dei costi. Difatti i film erano più belli, ma appartenevano alla loro epoca. È cambiato il mondo». Naturalmente. Ma in che senso? «C’è paura. E la televisione ha contribuito molto a dare un senso troppo immediato e tragico delle cose. Accendi il televisore e c’è dentro tutto. Ho girato un film d’azione (che deve ancora uscire), una storia complessa, il calvario di un uomo in cui parlo, tra l’altro, di questo. Della paura dei rapporti umani».
Provi a dirgli che l’arte (e il cinema in particolare) hanno tanto più valore quanto più rassomigliano a quello che ci circonda. Lui interrompe bruscamente: «Diciamo la verità. Attentati, vicende politiche, fatti storici: il cinema degli ultimi anni è tutto ciò. Benissimo. Ma il cinema è molto più potente di così: il cinema può tutto! La storia di Pasqualino Settebellezze (il film per cui Giancarlo Giannini fu candidato all’Oscar) era la storia vera di un napoletano in un campo di concentramento. Nessuno voleva farla. Io volevo fare “Pulcinella” in un campo di concentramento, derogando dal neorealismo, facendo una cosa completamente diversa. Prendere gli attori dalla strada? Rossellini detestava queste abitudini del neorealismo: era fiero di scritturare gli attori più bravi e più pagati dell’epoca. La verità è là fuori. Il cinema deve fare di più».
Il che conferma, però, che non tutti i voli di fantasia siano bei sogni… «Guarda questo videogame. C’è combattimento, sangue. Ma va benissimo. È finto! È solo… verosimile. Con questo principio, la storia in un italiano qualsiasi può svolgersi dall’altra parte del mondo, in Canada, o chissà dove, anche sottoterra, perché resta comunque solo la storia di un uomo. È questo che cerchiamo». A proposito di italiani che potrebbero trovarsi – e vivere – ovunque: è vero che, dopo la nomination all’Oscar, Giancarlo Giannini avrebbe potuto fare i bagagli e sbarcare definitivamente a Hollywood? Perché ha finito col vivere in Italia? «Il mio primo successo americano fu Film d’amore e d’anarchia, sempre di Lina Wertmüller. Ma in America, “fammi un italiano”, significa vestire un po’ i panni di “Arlecchino”, non stabilire le giuste differenze e sfumature. Ho rifiutato le proposte di registi americani molto importanti anche per questa ragione. In America, è tutto molto più superficiale. Ma fanno un cinema migliore del nostro». Perché? Semplice: «Perché hanno capito a cosa può arrivare un film. Lessi un copione. Una lettura incuriosita, non finalizzata a interpretarlo. Dissi ad Al Pacino, che per me era una stronzata. “Ma come una stronzata?” replicò lui. “Questo è un film che incasserà moltissimo”. Ma noi italiani ci trasciniamo un bagaglio di tradizione e cultura che penalizza il gioco. Loro ci sono più avvezzi».
Al Pacino, appunto. A un certo punto, facendo zapping col telecomando, puoi imbatterti nella sua voce. La sua voce italiana. Ma poi non trovi Al Pacino. Trovi la faccia di Giannini (del resto è sua, quella voce) accanto a James Bond, che sta recitando a tuttotondo. Con gli stessi occhi azzurri, con tenui striature sottobosco, che si dilatano e parlano qui, adesso. Ha stretto tra le braccia le attrici più belle e talentuose del Paese. E sa ancora come far sparire tutto questo e diventare «una voce». La voce di un altro. Cos’è il doppiaggio, secondo Giancarlo Giannini? «Una mostruosità. Una trasformazione. Ma anche un gioco fantasioso: che ti obbliga a mimetizzarti per aiutare quel “poveraccio” che parla inglese, e lo rendi credibile in un altro Paese. Credibile. Non vero. Mi raccomando».

2013, intervista allo sceneggiatore americano David Cage

Una volta pensavi che, se il finale di un film non era di tuo gusto, non era il meglio che si potesse fare, tanto valeva sperare in un sequel. E che, per far vivere dei personaggi con le proprie mani, toccasse comprare le marionette. Il mondo dei videogame, invece, sta scuotendo questi dogmi.

Beyond: Due Anime è il «videogioco dei sentimenti» scritto da David Cage per Sony (disponibile sulla Playstation 3), che cala gli attori Ellen Page e Willem Dafoe in una claustrofobica e dolce fantascienza. Le «due anime» sono quelle di Jodie Holmes (bambina, adolescente e donna, interpretata da Ellen Page) e il fantasma Aiden, un’entità invisibile legata a lei da sempre. La presenza che la sconvolge, le fa sanguinare le narici all’improvviso, la coccola nel buio ma, quando meno te lo aspetti, impazzisce di gelosia. Lo spettro che la ama di un amore umano, che non ha una provenienza né una logica, non ha identità. Eppure è reale e, di volta in volta, va affrontato diversamente.

A David Cage (già autore del videogioco Heavy Rain) l’idea è venuta in mente dopo un grave lutto della sua vita. Può far pensare che, forse, giocare col dolore e imparare a «dirigerlo», a riscriverlo, gli sembri una strategia vincente. «Giammai», risponde lo sceneggiatore: «L’idea era più quella di “contagiare”, far vivere agli altri, attraverso il videogame, la sofferenza e lo smarrimento che una vicenda reale mi hanno provocato. Farle vivere sul serio». Provarci, almeno, e scoprire se si può. La risposta sono gli occhi pieni di lacrime degli spettatori: pardon, dei giocatori. Soprattutto quando il personaggio di Jodie Holmes (Ellen Page, la protagonista) vive una sequenza disperata, in cui resta sola e senza una casa.

Durante la conferenza stampa, a molti torna in mente Sliding Doors. Il film con Gwyneth Paltrow che mostrava cosa sarebbe successo se la protagonista fosse riuscita a salire su una metropolitana, e quale destino, invece, l’avrebbe travolta se non ce l’avesse fatta. O Match Point, di Woody Allen. Almeno due storie diverse a seconda che una banale pallina da tennis balzi al di là o al di qua della rete. Ma il lavoro di David Cage non affida al caso, né al nostro gusto per questo o quell’altro «destino», le vite di Jodie e Aiden. Vicenda per vicenda, noi possiamo immedesimarci nei personaggi e decidere cosa proveremmo al loro posto; immaginare come ci comporteremmo. Sono le sceltedeterminare questa o quella sceneggiatura. «La differenza tra lo scrivere un film e un videogame – spiega David Cage – è tutta lì. InBeyond: Due Anime le soluzioni possibili sono tante. Sono, ciascuna, il frutto di molte combinazioni. Combinazioni che solo il giocatore, il pubblico, può decidere. A seconda di come agirebbe nella situazione che gli viene presentata. Di volta in volta, è lui a scrivere la storia».

È sì un videogioco d’azione, che fa correre i brividi sulla pelle, che cattura e richiede concentrazione. Ma è soprattutto, è la storia di una ragazza insicura, che piange spesso (e che opera d’arte, paiono gli occhi nocciola di Ellen Page allagati dalla malinconia nella grafica del videogame), che confessa di sentirsi sola. E ha bisogno dei nostri stati d’animo per «mentire o dire la verità?», «flirtare con questo ragazzo o fare da tappezzeria alla festa?», «tornare a casa o vendicarsi delle angherie subite dai compagni?». Beyond: Due Anime ci interroga continuamente perché una Jodie civettuola porterà la sua vita, qui ed ora, in un posto diverso dalla Jodie timida e fragile. E domani, le conseguenze saranno ancora più evidenti. Come nella vita. Quando poi ci si cala nei panni (invisibili) di Aiden, immaginarci fantasmi e prede di sentimenti oscuri sarà ancora più sorprendente. Vittime e carnefici di un amore bambino.

La ricetta del videogioco: in tutta sincerità, quanto è importante seguire l’istinto e quanto le ondate del marketing, per scrivere una storia come Beyond? «Beyond è stato scritto quasi completamente d’istinto – risponde ancora David Cage –. E perfino la scelta di due attori come Ellen Page (premio Oscar perJuno, ndr) e Willem Dafoe, non ha avuto altre ragioni che la qualità e il talento di questi attori. Hanno recitato davvero, abbiamo ottenuto, con la tecnologia delle capture, un buon utilizzo del loro stile, della loro voce. Interpreti del genere aiutano il mondo a rispecchiarsi nella storia. Come succede al cinema».

Può venire in mente un altro film: Ruby Sparks (2012). Un giovane scrittore inventa una ragazza – Ruby – graziosa e imperfetta. Per miracolo, la giovane prende corpo nella vita vera, e s’innamora, riamata, del suo creatore. Ma c’è una specie di incantesimo: lo scrittore, che continua a digitare parola per parola la storia della sua Ruby, determina con ciascuna decisione, o descrizione, la vita reale di questa ragazza. È il suo innamorato, ma anche il suo dio. Non è molto diverso da quello che succede quando un ragazzo tra i 20 e 25 anni gioca con Beyond: Due Anime. È spassoso vederlo coi propri occhi. Un giovane uomo che diventa «la controparte», che decide come far agire quel personaggio spaurito; che diventa lei, e nel contempo la protegge. Forse non se ne innamorerà ma certamente «se la sente dentro – dice David Cage – . Ed è sincero con lei. Non fa il contrario di quello che farebbe nella vita vera. Io lo so, l’ho chiesto a molti giocatori. È più forte di loro. Diventano Jodie. Le emozioni non hanno sesso».

2013, intervista (sul tema della radio) ad Alessandro Cattelan

Milano è la sua città di adozione, la sua «Catteland», come il programma che conduce su Radio Deejay. Alessandro Cattelan è nato e cresciuto in provincia di Alessandria a Tortona, anche se oggi lavora e ha messo su famiglia a Milano. Ma nonostante la conduzione di X-Factor (subentrata quest’anno a Francesco Facchinetti), ne abbia fatto un personaggio di punta della tv, la radio resta la sua seconda pelle.
Chi meglio di lei può dirci se il video ha distrutto le carriere delle star «sonore»?
«Per ciò che mi riguarda, la cosa che so fare meglio è la tv ma quella che amo di più è la radio. In video lavoro con meno fatica, benché sia più stressante e dia più notorietà. Ma la radio offre più libertà. Un programma che ti assomiglia, è la cosa più bella del mondo».
Che significa «un programma che ti assomiglia»?
«Non avere vincoli, obblighi, solo ospiti che mi interessano. E non pensare mai a chi c’è a casa. Lo studio è piccolo e spesso ho la sensazione di parlare col regista, chi ho di fronte e nessun altro. Mi rendo conto di avere il pubblico quando finisco e arrivano i messaggi degli ascoltatori».
E quando arriva lo stress della tv le capita di pensare che le manca un po’ la radio?
«Non proprio. Ma la televisione è un po’ un peso, come tutti i lavori. In radio invece non ho mai un malessere. La radio mi sorride, mi cambia l’umore».
Quando e come cominciò a lavorare a Milano?
«Proprio a Radio Deejay, appena arrivato a Milano nel 2001. Ero un fan di quella stazione e Linus mi fece fare un mese di prova senza andare in onda: ogni mattina “facevo finta” di lavorare accanto a lui. Poi Radio KissKiss si interessò a me, e lì mi feci le ossa».
Un ricordo di Mtv, la svolta di molti professionisti del suo settore?
«È stato un periodo fighissimo. “All Music” è stato il mio approccio ai canali musicali, ma non un vero lavoro, era molto “pane e salame”, disteso e con un pubblico scarso. Mtv è stato il periodo più bello. Rtl mi mandò in giro per il mondo: 5 volte solo in America. Poi ho scritto un programma con “Nongio” (Francesco Mandelli, oggi dei “Soliti idioti” ndr). Mtv ti creava una famiglia intorno, perché tutti conoscevano quel network ovunque, anche all’estero»
Come cambia la vita X-Factor?
«Dal punto di vista personale, niente di particolare. È stato un passettino. Ora però tutti sanno cosa so fare».
Che rapporto ha con Milano?
«È una città che ho un po’“sfruttato”. Questo lavoro si fa qui e basta perché sono qui case discografiche, radio ed emittenti. E qui ho una bimba: ormai mi sento a casa. Ma la ricollego un po’ troppo al lavoro. Con una professione pubblica, quando giro per la strada, quasi sento di non aver staccato la spina. Meglio Tortona».

2013, intervista #radio a Massimo Cirri

Se si dice «Caterpillar», si è già detto moltissimo, in radio. La satira politica e l’attualità di Radio Due in un programma tormentone che si confessa al pubblico (e viceversa) da sedici anni. Massimo Cirri, voce portante della trasmissione, ha creato Caterpillar dal nulla, assieme a Sergio Fiorentini: da allora una «costola» del programma (con rubriche e appuntamenti cult) fa ridere e sbraitare gli ascoltatori della fascia mattutina. Ma al tramonto – parola di Massimo Cirri – le persone lasciano entrare la radio nella loro vita più volentieri.
Dall’83 per qualche anno, laureato in psicologia, lavorava nei servizi di salute mentale. Oggi fa satira politica…
«Sì. Ma i miei studi li ritrovo molto più nel fare radio che nella satira in sé. Lavorare come psicoterapeuta mi ha insegnato a fare le interviste. A tenere il discorso, a stare al centro dell’attenzione. A parlare senza fronzoli dei dolori delle persone».
Ma come le venne in mente di lavorare in radio?
«Il primo incontro con questo mondo fu a Radio Popolare. Una collega mi ci portò una volta e lì conobbi Paolo Farinetti, sociologo e autore musicale. In radio inventava poesie demenziali. Un giorno (per via del mio accento toscano) mi chiese di leggerle in onda. E poi una volta si ammalò e mi permise di sostituirlo».
Così esordì con una poesia demenziale?
«Esatto».
Se la ricorda?
«Un po’ a stento. Credo fosse su Yuri Andropov, un leader sovietico appena scomparso, del quale si diceva che fosse già morto da quattro anni. Una stupidaggine».
Quando invece propose Caterpillar ai suoi editori di cosa parlò?
«Proponemmo un programma vicino alle persone in momenti particolari della vita. Quando tornano dal lavoro, la sera, e corrono in macchina in tangenziale. Quello è un momento triste, di solitudine. E poi volevamo raccontare il mondo, con collegamenti con l’estero».
Quale incontro radiofonico, tra tutti quelli che le ha regalato Caterpillar, ricorda più volentieri?
«Durante la guerra dei Balcani, intervistai il sindaco di Niš. Era un autore e attore teatrale. Ci raccontò della sua città, degli scioperi contro Milošević, e ci diceva che i loro modelli democratici erano quelli europei e americani. “Adesso quelle democrazie – mi disse – hanno tirato sei missili sulla mia città. Su uno c’era una data di scadenza. Era un missile scaduto.” E osservò: “Ma perché ci bombardano con missili scaduti?”. Ecco, quell’intervista non la dimenticherò».
Ma da cosa nasce il suo interesse per la radio?
«Dalla fascinazione che avevo fin da bambino. Quando a 7-8 anni mia zia mi regalò una radiolina, e io andavo ad ascoltarla in un posto isolato del giardino».
Ha dei bambini suoi, oggi?
«Sono sposato da vent’anni e ho due figli adolescenti. Due carogne!».
Non vanno pazzi per la satira, gli adolescenti?
«Amano la satira in edizione “generazionale”. Più che la satira amano il sarcasmo. Quello che fa dire “Voi siete tutti vecchi, non capite niente” e cose del genere. Dove “voi” sta per tutti. Chiunque non siano loro».
Il successo di Caterpillar generò uno spin-off televisivo. Si sentiva a suo agio?
«Furono poche puntate. La radio ha un grande vantaggio sulla tv: la rapidità. Decidiamo di intervistare il signor Rossi? In un quarto d’ora è fatta. I tempi televisivi sono molto più lunghi. A volte fanno perdere la fantasia. La radio è un artigianato. La tv è un’industria».
Lei non è milanese ma vive in questa città e qui ha una famiglia. Sul suo blog ha scritto delle riflessioni sulle recenti elezioni. Che augurio fa a Milano?
«Cambiamenti in senso “urbanistico”. Rifare anziché costruire. Lavorare sull’esistente da ripulire. Ecco, glielo dico fissando un grattacielo fuori dalla mia finestra. Non mi piace per niente».

2013, intervista #radio a Massimo Oldani

Nel film I love Radio Rock (2009) , una stazione pirata degli anni ’60 trasmetteva, da una nave in mare aperto, la musica invisa ai benpensanti del Regno Unito. La rivoluzione sessuale s’aveva ancora da fare e il rock suonava il cambiamento. Milano ha avuto una stagione molto simile. Capitale italiana della radio, vanta le voci più importanti e più storiche. Ed è qui che Massimo Oldani (classe 1960), è nato, cresciuto, e diventato una radio-star. Questa città, in un certo senso, l’ha portata fino a New York con le sue lezioni. Ma è qui che, dice, ha il «privilegio di vivere».
Quali sono stati i suoi primi passi in radio?
«Io nasco come ascoltatore molto curioso. Nel ’75 c’era un solo canale (e mezzo) televisivo, una sola stazione radio. Pirata. Era una finestra sul mondo fuori dai cliché musicali della Rai. Gli speaker parlavano un inglese “abboracciato”, ma di fortissimo impatto. Con 100mila lire potevi farti una stazione tua. Nel ’78 conducevo già un programma su Radio Milano International. Se penso ai supporti tecnici di allora, provo un sacco di tenerezza».

Radio Capital, poi Radio 101, entrambe a Milano. Quali grandi incontri con la musica le ha regalato la sua carriera?
«In 35 anni di questo lavoro conosci chiunque. Ma penso a tre nomi su tutti. Anzitutto a Quincy Jones: produttore, tra gli altri, di Michael Jackson. Lo conobbi a un party a Milano che io stesso organizzai. Iniziai a parlargli dopo avergli versato addosso una flûte di champagne. Secondo nome, Prince. Lo conobbi a casa di Versace; non aveva aperto bocca con nessuno e quando disse “Buongiorno” al giardiniere di Versace fu un caso nazionale. Terzo nome Nile Rogers. Produsse Madonna e David Bowie ed era un pozzo di aneddoti e tecnica come chitarrista».
Ha portato a Milano a New York. Fu lei l’unica presenza non americana ai seminari di Vibe Music.
«Ero anche l’unico caucasico: l’unico bianco! Non fui esattamente sommerso dalle domande, ma consideri che alcuni dei miei “colleghi” lì hanno una stella sul marciapiede di Sunset Bouevard. Fu lì che conobbi Nile Rogers, ma con me voleva parlare dell’Italia».
A proposito di Italia, che posto è Milano? «È la città dove sono nato, vissuto, e dove vivo ancora. Una città che offre incredibili opportunità internazionali. E concerti strepitosi. Pur non avendo gli stessi spazi di altre città europee. Non vorrei esagerare se dico che è la New York d’Italia».
Cosa consiglierebbe a un “aspirante Massimo Oldani”?
«Tutta la mia generazione ha cominciato grazie alle amicizie e oggi la situazione è rimasta omologa. Il primo step di oggi è web-radio: facilità di approccio, platea (sulla carta) molto vasta. Il propellente – dimostrare di saper fare qualcosa che sullo scenario non c’era, rompere la routine – è lo stesso del ’75. Sei, oggi come ieri, artefice del tuo destino. Sconsiglio invece le scuole per dj: non servono».

2009. A vent’anni esatti dall’Oscar di Nuovo cinema Paradiso, la mia intervista all’interprete di Elena, la bellissima protagonista: Agnese Nano

Era Elena, il grande amore di “Totò”. Il primo amore cinematografico di Giuseppe Tornatore.
E anche in Baaría, in fondo, è facile ritrovare gli echi di quello stesso etereo “imprinting” tra i protagonisti.
Ebbene, l’interprete di una icona romantica rimasta famosa in tutto il mondo era lei, Agnese Nano, che pochi anni dopo il grande successo di Tornatore si dedicò ad esperienze televisive, ancora cinematografiche, e teatrali. Pochi anni fa l’abbiamo vista al fianco di Carlo Verdone, nei panni (un po’scomodi ma molto ben portati) di moglie e madre, ne Il mio miglior nemico.
La trovo fasciata dal jeans praticamente da capo a piedi; i capelli castani raccolti; non un filo di trucco. Gli occhi nocciola, che mi paiono striati di pagliuzze verdi e dorate. Io la ricordavo con gli occhi azzurrissimi, Elena: lei mi spiega che “in effetti il personaggio era stato scritto con gli occhi blu”, e blu diventarono le sue iridi sul set in Sicilia.
La prima cosa che le chiedo, gliela chiedo senza remore. Un pronto tuffo nel passato.

Come nacquero i panni di Elena addosso a te?
«Andiamo lontano lontano lontano nel tempo! Io avevo 21 anni e in realtà pensavo che la mia vita fosse completamente altra: studiavo medicina veterinaria. Avevo già fatto un film, ma questo mi sembrava un mestiere “non serio”, assimilabile perlopiù al gioco… Ero a Perugia all’università, il mio agente mi chiamò dicendomi che aveva letto questa sceneggiatura bellissima e mi disse: “Vieni a Roma, ti vogliono incontrare”».
Dov’è che ti avevano apprezzata?
«Io avevo fatto il primo film di Daniele Luchetti (Domani accadrà). Quindi avevano visto questo film che era stato selezionato per la settimana della critica a Cannes. Per Nuovo Cinema Paradiso cercavano una ragazza che assomigliasse a Valeria Ciangottini (ce l’hai presente? La bimba de La dolce vita…) perché doveva essere lei a fare Elena da grande.
Mi chiamarono la prima volta per la mia somiglianza con Valeria. Al secondo incontro ci convocarono per una giornata intera di provini a Cinecittà. Dovevamo recitare circa… tre scene (ogni coppia doveva provare tre scene). Sì, il provino più lungo della mia vita».
Con Tornatore. Com’era il giovane Tornatore?
«Meraviglioso. Perché è un regista che sa esattamente quello che vuole: spesso i registi, quando non sanno quello che vogliono, ti dirigono in maniera un po’ violenta e invasiva. Lui aveva già una dolcezza incredibile. Già dal primo film (Il camorrista) si capiva bene che era un grande regista: aveva un dono innato, la capacità di “costruire un mondo” attraverso i suoi occhi.
In questo set in Sicilia si aveva l’impressione, almeno a momenti, di fare una cosa bella e grande. Ma una volta finito, il percorso del film fu un po’ strano…
Il fatto di vedere che la critica, la stessa critica, gli stessi identici nomi, possono assumere atteggiamenti così diversi nel corso di poco tempo, mi insegnò subito molto. Ero piccola: questa esperienza mi ha dato immediatamente una distanza da quello che succede attorno a questo lavoro…
Capii già allora che chiunque può entrare in sala e giudicare: a prescindere da chi sia abilitato a farlo. È stato surreale sentirne dire che era una schifezza e poi un capolavoro (ripeto: dalle stesse persone). Sono diventata immediatamente poco dipendente dal giudizio: stroncatura o esaltazione. In questo mestiere, da un momento all’altro, tutto cambia. Alla fine di ogni lavoro torni a casa, fai i conti con te stesso e ricominci daccapo ».
Per te il film “vero” resta la versione integrale o la più fortunata “tagliata”?
«Per l’attore il film è esattamente quello che si è girato. Ciò che esce in sala è reinterpretato attraverso il montaggio.
La versione integrale del film in fondo dava delle spiegazioni: c’è il perché i protagonisti si perdono. Ma forse questo “perché” non è così necessario… Può prendere il volto di Philippe Noiret che non consegna quel messaggio, o il giovane Salvatore che copre il messaggio con la mano inavvertitamente… È la vita che è fatta così… »
Tutt’altra stagione rispetto agli inizi, sarà stata quella televisiva. Era l’epoca dei primi esperimenti di fiction italiane, i primi anni ‘90…
«Io ho saltato completamente la generazione dei registi della mia generazione. Ho lavorato con registi di stagioni precedenti e successive, ma non della mia. Credo che il successo straordinario di Tornatore un po’ io lo abbia subito. Nessuna lamentela, in questo. Ma dopo Nuovo Cinema Paradiso ho sentito il peso di questo successo. Forse l’invidia, che è del tutto umana, dei registi della stessa generazione di Tornatore.
Il mio percorso è stato di fatto particolare: prima Cannes, poi un film che vinse l’Oscar…
All’inizio, quando mi chiesero di interpretare “Edera” in quella serie televisiva, avevo detto di no. Doveva interpretarlo un’attrice americana che poi non lo fece più. Io ero incuriosita da questo esperimento… E poi avevo voglia di lavorare con quel regista, Fabrizio Costa. Era tutto così diverso… Telecamere giganti con le manopole, il regista lontanissimo dal set, circondato da monitor. Venendo da un cinema stracurato, mi sono vista un po’ sola con me stessa, senza il regista che ti curava immagine per immagine. Era molto più teatrale, come esperienza: finché non finiva questa “cassettona” di venti minuti: un’eternità! Mi è servito tanto.
Tra un ciak e l’altro avevo i libri di veterinaria e studiavo. Io sono cresciuta in una casa senza un televisore piena di libri, e piena di fratelli…
L’istruzione era fondamentale. Eppure non sono stata disapprovata per la mia scelta: l’unicità di ciascun figlio è sempre stata rispettata».
Neanche un po’ di preoccupazione?
«Certo che sì… Un po’ di preoccupazione è del tutto normale. Al di là di quello che immagina la gente, l’attore non sta assolutamente in una torre dorata circondata da lussi. Si parla tanto di precari, e l’attore è il precario per eccellenza. Niente copertura nel caso d’infortunio. Pochissimi arrivano effettivamente alla pensione. Poi, arrivati a 40-45 anni, è complicato trovare un lavoro, per le donne soprattutto. È ovvio che questa mancanza di stabilità preoccupi un po’ la famiglia.
Io in realtà ne ho fatta poca di televisione, ma quella che ho fatto ha avuto un seguito pazzesco».
Appunto. Che significa la popolarità televisiva che arriva così di colpo? (Fenomeno attualissimo, tra l’altro, espanso da una serie di format nuovi che hanno poco a che vedere col tuo lavoro…).
«Ci sono state due ondate di incredibile popolarità, per me. La prima volta mi ha fatto sentire “invasa”… e spaventata, anche. Praticamente fuggivo, fuggivo da un vagone di gente sulla metro pronta all’assalto, per intenderci. Poi ho capito che più scappi più ti si corre dietro. Se resti fermo puoi anche parlare con l’altro, senza farti invadere.
Ho scoperto la bellezza di questo mestiere: il mestiere di un artigiano, la creatività che gli è richiesta. È fondamentale parlare col pubblico per capire cosa è arrivato. Dopo dieci anni da “Edera”… ben dieci anni, con “Incantesimo”, è arrivata la seconda stagione. Poi, io sono molto divertita anche dalle critiche. Soprattutto quelle della gente comune. “Incantesimo” era seguitissimo anche dagli uomini! (ride, nda). Comunque, alla fine ho abbandonato anche questo progetto perché non mi diverte stare ferma su un personaggio soltanto».
Nel 2006, Il mio miglior nemico di Carlo Verdone.
«Quell’anno ero impegnata a teatro con Gabriele Lavia (Chi ha paura di Virginia Woolf) e non ho vissuto molto la stagione della proiezione cinematografica. Ma è stato divertentissimo: il primo personaggio davvero comico che ho interpretato… »
Le prime parolacce sullo schermo, anche?
«No, quelle (ma molto più pesanti) le avevo già dette a Ricky Tognazzi nei panni di un’altra moglie indemoniata».
Secondo te che momento è, questo, per il cinema italiano?
«Sono stata ad Annecy (a un festival di cinema italiano). Il cinema italiano è così: pochi soldi, tantissimi problemi, ma quando il film è un buon film è nettamente superiore a qualsiasi film europeo. In Italia non c’è amore per la cultura. Non stiamo vivendo un buon momento: chi dovrebbe far crescere la cultura sembra non capire. Penso che forse sia molto più facile gestire persone che non sanno: lo spirito critico è sempre più addormentato ed è un problema generale che viene da molto lontano… Sembrava fantascienza poter rimpiangere le politiche culturali di qualche anno fa, e invece siamo costretti a farlo…
La cosa più potente del cinema è l’immagine, e il suo movimento: questo è il respiro del cinema e bisogna saperlo fare.
In passato, molti registi italiani non hanno sfruttato bene questa prerogativa. Ma quando produciamo un buon film noi, non c’è paragone. All’estero ci stimano: c’è considerazione per quello che facciamo.
Vincere, di Bellocchio, è bellissimo; il film di Piccioni è bellissimo… Baarìa ancora non l’ho visto… ma di Tornatore ho apprezzato moltissimo Una pura formalità e La sconosciuta, oltre a Il Camorrista (e naturalmente Nuovo Cinema Paradiso)».
A vent’anni da quel principio, se ti chiedessero quali sono state le critiche più costruttive e i complimenti più gratificanti che ricordi?
«Beh… all’inizio non avevo scelto questo mestiere: non avevo programmato, non avevo studiato per farlo e mi sentivo spaventatissima. Mi sentivo quasi come se stessi usurpando qualcosa che forse non mi apparteneva.
Ero terrorizzata, sul set, per la scena che dovevo girare con Noiret. Tremavo. Lui era il “grande” Philippe Noiret. Avevo passato l’adolescenza tra i cineclub di Roma… e lui era un mito. Mi chiese: “Ma che c’è?”, vedendomi tremare così tanto. Gli risposi che mi sentivo spaventata perché non avevo una vera formazione. Allora mi disse: “Qualsiasi scuola ti può dare delle cose, sì, ma nessuna scuola è come questa. È qui che si impara. Quindi recitiamo.”
Mi dava la battuta in francese e le ultime quattro parole in italiano. Meraviglia.
Dopodiché non so più per quanti progetti ho lavorato gratuitamente, perché non mi sentivo abbastanza preparata» (ride, nda).
Questa quindi è stata la tua (auto)critica più importante. E l’apprezzamento?
«I complimenti mi imbarazzano. Sono davvero timida! Frequentemente mi dicono: “Sei più bella dal vivo che in televisione”, o che sembro più giovane… E poi ci sarà sempre “Elena”. L’icona dell’amore perso: un’icona transculturale. A me arrivano email dal Giappone o da paesi che non ho mai sentito in vita mia. O magari gli uomini mi riconoscono e arrossiscono perché ritrovano quel personaggio… »
… e quello che significa. Che rapporto hai tu con un’icona simile? Con l’idea della felicità perfetta e fugace, con l’eventuale, rimpianto, magari…
«Ci sono cose che potevo fare diversamente. Chissà, alcune scelte che ho fatto non sono state produttive, nella vita in generale e non solo nella professione. Ma devo dire che non ho rimpianti veri e propri.
Io sono che pensa molto e al contempo è molto istintiva. Se stai a contatto coi tuoi sogni e i tuoi bi-sogni, lo sai dove devi andare… Di fronte a una scelta, io tendo a “scomporre” le situazioni che mi vengono presentate. Dalla mia formazione familiare, ho imparato che le cose hanno almeno nove punti di vista (sei fratelli, madre e padre). Tendo ad utilizzare tutti gli occhi che amo, analizzo il più possibile. Ma alla fine la scelta sarà quella che avrei fatto istintivamente. E francamente no, alla fine non ho rimpianti».
Un rapporto abbastanza intimo con te stessa. Come va invece coi “caratteri” che porti a teatro o al cinema?
«Beh, mi capita di leggere moltissimo, per preparare caratteri diversi da me. Di recente c’è stato un personaggio in tv, per una serie (“I liceali”, nda) in cui interpreto una madre con una forte instabilità psicologica, una madre che possiamo definire “bipolare”, ho dovuto anzitutto capire a fondo cosa sia una personalità bipolare. O per il ruolo di Chi ha paura di Virginia Woolf a teatro, il personaggio soffriva di disturbi alimentari… Quindi ho dovuto capire di cosa trattasse, non avendone mai sofferto. Ho letto anche un bel po’ di libri di psicologia».
Il teatro sembra regalare a tutti gli attori che lo fanno dei regali e delle sensazioni che non hanno a che vedere col resto dei format. Tu che esperienza hai?
«Il teatro è sano. Non ci sono filtri. È una delle poche esperienze in cui davvero senti il tempo. Hai la sensazione anche di poter morire. Per come funziona il nostro cervello… A teatro hai l’esperienza del presente come da nessun’altra parte. Nelle lunghe serialità in televisione, per esempio, si perde un po’ di contatto con la realtà: lavori ogni giorno, ti vengono a prendere all’alba e smonti la sera.
A teatro, capisci esattamente dove sei, e devi essere “onesto”. Se non lo sei, ti “tanano” immediatamente. A teatro non si rifà niente. Lo ripeto: è sano, e lo consiglio a tutti quelli che vogliono fare gli attori».

Intervista a Franca Leosini (gennaio 2016)

È la signora del noir da almeno trent’anni. Una voce e una cifra narrativa tutte sue, un modo di raccontare che sembra scucito dalla letteratura. E le sue “Storie maledette”, i suoi tête-à-tête su Rai Tre con gli autori di delitti feroci, pagine di cronaca che hanno marcato la storia del nostro Paese, sbarcano adesso in prima serata. Per la prima volta dal 1994. Franca Leosini odia il termine «femminicidio», disprezza le generalizzazioni, è allergica al concetto di «normalità». E le sue storie, dice,  «sono in fondo storie di una quotidianità come quella di tutti, infranta da un gesto criminale, ma mai commesso da professionisti del crimine. I professionisti del crimine proprio non mi interessano».

Si ricorda la prima donna, la prima autrice di un delitto di sesso femminile, che scelse di conoscere meglio?

«Certo. Si chiamava Rosalia Quartararo: all’epoca  aveva solo 39 anni ed era stata condannata all’ergastolo per l’omicidio di sua figlia, di 19 anni: era innamorata del fidanzato di questa povera ragazza. Ma di donne colpevoli di crimini ne ho conosciute molte. Anche nella serie che andrà in onda tra poche settimane ci saranno donne dalle storie molto importanti. Sarà una serie fortissima».

Il delitto commesso da una mano femminile può avere, secondo lei, delle caratteristiche che dipendono dal suo genere? Delle piccole prerogative rispetto a quando a uccidere è un uomo?

«Quando una donna si rende responsabile di un gesto estremo, ha certamente una psicologia più complessa e qualche volta più interessante: perché la natura di una donna è quella di dare la vita, non toglierla. E spesso la donna è il mandante di un delitto, non la mano armata».

Quando una pagina di cronaca è, secondo lei, una “storia maledetta”?

«I crimini commessi in un Paese segnano spesso un’epoca, ma sono anche figli della loro cultura geografica. Il delitto di Erba, tanto per fare un esempio, non sarebbe mai potuto avvenire a Napoli, terra in cui vige la cultura del “basso” della reciprocità, della condivisione di tutto; e così pure la morte di genitori per mano dei figli. Viceversa, una storia di mi occupai anni fa, a San Severo di Puglia, non poteva che avvenire al Sud: una piccola martire appena adolescente, segregata in un casolare e uccisa da un cugino di trent’anni che voleva comprometterla. Un crimine può raccontare molto del suo territorio».

Non sempre, però, lei intervista degli assassini. Appena nella scorsa edizione ha incontrato Alessandra Bernaroli, la cui storia è identica alla trama del film The Danish Girl, al cinema a febbraio e già campione di applausi a Venezia…

«“Sono la moglie di mia moglie” era il titolo della mia puntata. È proprio la storia di “The Danish girl”. Alessandra Bernaroli ha cambiato sesso: prima era un ragazzone di nome Alessandro, e aveva sposato la donna che amava. Diventato donna, si è battuto in tribunale per restare sposato con lei. E ce l’ha fatta».

Perché decise di raccontare questo caso?

«Era la prima volta che sul piano giudiziario e giuridico si poneva una situazione del genere. Io sono sempre stata molto sensibile alle storie della cosiddetta “diversità”».

Che stati d’animo le lasciano le sue lunghe interviste, nelle quali lei ha sempre una proverbiale presenza di spirito e un apparente distacco?

«Le storie mi attraversano. Quella forma di distacco che mantengo non somiglia affatto al mio stato d’animo. Sono un po’ come il chirurgo di fronte al tavolo operatorio: bisogna mantenere i nervi saldi anche quando le emozioni sono fortissime. Dopo l’intervista con Mary Patrizio, giovane mamma che uccise il suo bambino, scoppiai a piangere a dirotto. E fu proprio lei a confortare me».

Altro elemento che fa di Franca Leosini una icona dei social network è l’inconsueta ironia con cui affronta le sue storie.

«Vero. A un noto professionista, accusato dell’omicidio di sua moglie, una volta domandai: “Mi scusi, ma lei, all’epoca della morte di sua moglie, aveva un’amante?”. Lui si irrigidì, era davvero stizzito: il termine “amante” lo aveva seccato. Lo tranquillizzai: “Guardi che avere un’amante non fa di un uomo un assassino. In certi casi, tutt’al più, può farne… uno stronzo”. Su Twitter esplose immediatamente un divertito delirio di commenti. L’ironia è indispensabile, purché non si manchi di rispetto a nessuno».

L’approccio particolare che lei ha con le storie maledette discende, secondo lei, anche dal suo essere donna?

«Noi donne abbiamo una capacità introspettiva un po’ più alta degli uomini. Non sono affatto una femminista, ma questa marcia in più ci va riconosciuta».

Ricorda come nacque il format della sua trasmissione?

«Io vengo dalla carta stampata. Ho sempre pensato che per saper parlare in televisione anzitutto occorra saper scrivere. “Telefono giallo” fu la prima trasmissione a portare il noir in tv: conduceva Corrado Augias, ma gli autori delle inchieste erano dei giornalisti scelti con rigore dalla Rai. E io fui chiamata per una di quelle inchieste. Il delitto Grimaldi, 1985, che io avevo commentato per Il Tempo. Fu la prima di molte mie inchieste per quella trasmissione: e, mentre curavo questo lavoro, mi rendevo sempre più conto di essere interessata ai perché, alle ragioni che avevano spinto una persona a commettere quel delitto. Mi rivolsi al direttore di Rai Tre, gli proposi il format di “Storie maledette”, e lui ne fu entusiasta».

Qual è il punto di forza che non è mai invecchiato, del suo programma?

«La verità. Non concorderei mai nemmeno una piccola domanda per il nostro colloquio. Le racconto un dettaglio. Riguarda uno dei casi di cronaca che hanno fatto storia, il delitto del “Nano di Termini”. Nel corso di un colloquio preliminare alla trasmissione, di fronte al ragazzo che avrei poi intervistato mi sorse spontanea una domanda: “Come sarebbe finita questa storia se lei non avesse ucciso quell’uomo?”, e lui rispose: “Quell’uomo avrebbe ucciso me”. Questa risposta mi parve così importante che, in via del tutto eccezionale, lo avvertii: avrei potuto fargli quella stessa domanda davanti alle telecamere. E gliela feci. Ma stavolta la sua risposta non fu spontanea, sembrava recitata. La tagliai al montaggio».

È vero che spesso i suoi intervistati ci tengono a raccontarsi a lei anche per una sorta di “restauro d’immagine” nell’opinione pubblica?

«Assolutamente sì. E io cerco sempre di capirli, senza giudizio né pregiudizio: ecco perché spesso finiscono col dire a me cose che non hanno detto durante il processo. Ma, con molto garbo, con molta attenzione, devo anche saper girare il coltello nella piaga: ho grande rispetto di queste persone, ma non risparmio loro nulla».

Intervista a Luca Dotti, il figlio italianissimo di Audrey Hepburn (dicembre 2015)

Fragranze, sapori, colori sgargianti. Un «quaderno sfilacciato con le sue ricette». Ecco come nasce il libro di Luca Dotti, romano, 45 anni, per condividere col nostro Paese il ricordo di sua madre. Una madre che siamo più abituati a immaginare appollaiata dolcemente sul davanzale, chitarra tra le braccia e il testo di Moon River sulle labbra in Colazione da Tiffany. Proprio così. Luca Dotti è il figlio di Audrey Hepburn, nato dal matrimonio dell’attrice con lo psichiatra italiano Andrea Dotti (1969). Ed è l’autore del libro Audrey mia madre (Mondadori Electa) uscito in libreria lo scorso 6 ottobre.

Tutti sappiamo chi è Audrey Hepburn. Chi è invece Luca Dotti? Di cosa si occupa?

«Per più di vent’anni ho lavorato come grafico; all’incirca sette anni fa ho cominciato ad aiutare mio fratello in alcune iniziative relative a nostra madre. Attraverso mostre, libri e progetti legati a mia madre, aiutiamo associazioni come l’Unicef, ma anche altre più piccole e certo non meno interessanti. Sono sposato, ho tre figli, di quattordici, cinque e quattro anni».

Audrey, icona mondiale di eleganza, impegno e generosità. Si sente un po’ il peso della responsabilità con una mamma così?

«Certamente sì. C’è una responsabilità verso quello che mia madre ci ha insegnato: l’equilibrio tra il pubblico e il privato, che è prezioso e deve restare riservato. E poi c’è la grande responsabilità verso tutta quella sfera di persone che hanno bisogno di aiuto: infanzia maltrattata e abusata, ospedali e realtà che lottano per la sopravvivenza».

Quanto è stato difficile far convivere l’amore di figlio con l’idolatria del pubblico, di tutto il mondo?

«Inizialmente è stato molto complicato. Mia madre conviveva col suo personaggio pubblico molto bene, riusciva a essere sempre incredibilmente se stessa. Quando morì, io avevo solo ventitré anni e  la risonanza della sua morte, naturalmente, fu mondiale; io cercai di proteggermi. Cercai di separare la mia vita da tutta la storia pubblica di mia madre, di non diventare per tutti “il figlio di”. Pian piano ho riappacificato i due aspetti».

Qual è l’aspetto che secondo lei non ci aspetteremmo mai di trovare in Audrey, e che grazie a questo libro scopriremo?

«Non saprei. Sa, internet mi ha aiutato a capire quanto le persone conoscessero e amassero il lato fortemente autentico, naturale, di mia madre. Mia madre aveva una grande ingenuità. Non era assolutamente una sprovveduta, ma malgrado tutto non fingeva. Ed era un’ottima cuoca. C’è gente che mi dice: “Ma davvero tua madre cucinava? Noi non pensavamo neppure che mangiasse!”».

Quanto è durato e com’è stato il “periodo italiano” di Audrey?

«È durato per quasi trent’anni. Era diventata molto, molto italiana. Il suo sogno fin da bambina era stato quello di avere una famiglia, un marito e dei figli da amare e accudire. In un certo senso, mia madre a Hollywood ci era passata ma non ci era mai entrata».

Audrey Hepburn ha avuto molte vite. Quale, secondo lei, l’ha segnata e cambiata di più?

«Credo sia stata la seconda guerra mondiale. Parlava più intensamente e più volentieri di quel periodo (le mancanze, la sofferenza, ma anche i rumori e gli odori della guerra) che della sua carriera cinematografica. E poi il suo lavoro per l’Unicef, che ha svolto con grandissimo amore. Diceva che il suo impegno umanitario era qualcosa di profondamente materno».

E, nella sua vita più “leggera”, quella da attrice, c’è una scena o un film in cui, da figlio, l’ha amata di più?

«Sono legato a Vacanze romane, che ha reso Roma “iconica” e che ha ritratto una femminilità molto moderna. Ma anche Come rubare un milione di dollari di William Wyler: da maschietto, mi piaceva perché c’era azione. E poi un film che mia madre amava moltissimo, ma che è meno conosciuto degli altri: Gli occhi della notte, di Terence Young. Lì non c’era più La Audrey Hepburn “bambina”, eterna cerbiatta: c’era un’attrice più matura».

È vero che, quando in Sabrina la vide baciare Humphrey Bogart corse ad allertare suo padre, convinto che lo stesse tradendo?

«Sì. Ero molto piccolo. All’epoca non era facile vedere un film in tv: occorrevano una cinepresa e un proiezionista, era un evento speciale. Un giorno a casa nostra proiettarono Sabrina, e quando vidi mia madre baciare un altro uomo corsi da mio padre a riferirglielo. Questo è emblematico di quanto conoscessi meglio il lavoro di medico di mio padre che la vita da star di Audrey Hepburn».

La sua infanzia sarà stata piena di incontri speciali. Qualcuno in particolare?

«Ne ho un ricordo un po’ irregolare. Se me lo avesse chiesto anni fa, avrei detto che non ne avevo memoria. Perché per me era normalissimo avere a cena Julie Andrews: nessuno mi creava l’aspettativa di incontrare di persona Mary Poppins, o Roger Moore in carne ed ossa… Oggi mi rendo conto».

E come mai non ha scelto di fare cinema?

«Giammai. Il pubblico mi terrorizza! Al massimo avrei potuto fare radio. Forse avrei potuto calcare le orme di mio padre come medico, ma alla fine ho scelto una strada tutta mia. Per essere un buon grafico però serve l’empatia con gli altri: e in questo somiglio a entrambi i miei genitori».

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